Salsa Verde
T-bone Soverato

T-bone Soverato

Traversa Via Regina Elena, 11, 88068 CZ, Italy, SOVERATO

Caffè • Europeo • Italiano • Fast Food


"Andare da Pietro , The barman, è sempre un piacere , caffè , cappuccini , cocktail tutto ai massimi livelli di professionalità.Il bar è stato ristrutturato un anno fa circa , molto bello , moderno d'impatto visivo notevole. Ma il quid in più di questo bar /pasticceria è senza ombra di dubbio Pietro , il barman storico di questo locale. Non vi sono cappuccini in giro a questi livelli di bontà , con il latte lavorato con grande maestria al fine creare una crema di latte soffice compatta e buonissima al palato . La pasticceria nel laboratorio sottostante è nella media , i prodotti purtroppo , cornetti e similari come nella maggior parte dei casi , sono prodotti non freschi , ma fanno la loro parte , è difficile trovare questa tipologia fresca , ma non impossibile. È una scelta .Gelato anche esso nella media , come per la pasticceria c'è di meglio, basta cercare. Ogni locale ha le sue peculiarità, questo si distingue a mio avviso per la grande professionalità del barman, soprannominato dai suoi amici/collaboratori , il Manager, sempre pronto ad organizzare, dispensare consigli , chiedere in laboratorio , ecc.davvero un Professionista nel vero senso della parola e con la P maiuscola .Dubito fortemente, nel caso non auspicabile, che lasci il lavoro, che il bar mantenga livelli di clientela attuale . Conosco personalmente molte persone che vanno a prendere il famoso cappuccino da Pietro non menzionando neppure il bar), a testimonianza della conoscenza del barman.Consiglio davvero una visita a questo bar /pasticceria per una consumazione al banco o si tavoli , il servizio è abbastanza veloce e gentile , nella bella stagione vi è anche un notevole Dehors adiacente al locale , molto carino.Prezzi in aumento, a volte non giustificati , ma comunque accessibili . Per la pasticceria torte e gelateria siamo nella media , dico tre stelle , un bar di questa portata merita molto di più , servizio bar cinque stelle (gran parte merito di Pietro giudizio finale quattro stelle , la media.Una visita è consigliata."

Quadri

Quadri

Piazza San Marco 121, 30124, VENEZIA, Italy

Vino • Pizza • Pasta • Gelato


"Il Ristorante Quadri, appartenente al gruppo della famiglia Alajmo, situato proprio sopra il Gran Caffè Quadri, propone un’originale rivisitazione dell’idea di menù e di servizio, concependoli come un’opera teatrale e, come tale, necessitante di essere vissuta in un’alternanza di pause e riprese.Tutto sommato, l’importanza della rappresentazione, che ognuno costruisce dentro di sé, di quanto accade durante un percorso degustativo è ormai risaputa. Al punto tale che parte del successo di una proposta, accanto ovviamente all’indispensabile bontà di quanto servito, è legato proprio a come viene proposto, offerto, servito, portato al tavolo, preparato al tavolo, raccontato e fatto comprendere. E trattandosi di rappresentazione, di realtà raccontata, detta, esposta, prima ancora che direttamente esperita, è proprio il teatro l’ambientazione naturale per questo. Tutto, pertanto, è messa in scena, esibizione, esposizione, performance, sia in cucina, nei piatti, che in sala, nel servizio, che in cantina, nei vini. E quindi è naturale che l’intima struttura dell’opera teatrale possa essere ripresa in questi contesti. Ed è quello che, appunto, si fa qui. In Piazza San Marco. Al Ristorante Quadri. Sopra il Gran Caffè Quadri. Con un affaccio strepitoso sulla sottostante Piazza e in sale sontuosamente decorate, illuminate da imponenti lampadari, in un gioco di piani sfalsati, di volumi comunicanti, di atmosfere ricercate.Viene proposto, infatti, un menù degustazione suddiviso in quattro atti (antipasto, primo, secondo, dolce) in cui ognuna della quattro portate, delle quattro scene, per così dire, che compongono ogni atto viene contemporaneamente portata al tavolo o, meglio, “sul palco”. Sicuramente questo semplifica il servizio, ma contestualmente permette ad ogni commensale di scegliere a piacere tra le quattro possibilità, di procedere in ordine sparso, di seguire un proprio filo logico, di assecondare i richiami dei propri sensi, di saltare qua e là, o di seguire i consigli di degustazione degli chef, Sergio Preziosa e Silvio Giavedoni.E tra un atto e l’altro, i giusti momenti di pausa e di riflessione, magari completando l’assaggio dei vini proposti in abbinamento da Giacomo Lorato, il sommelier, e meditando su quanto appena assaggiato.Le mille sollecitazioni sensoriali, teatrali, nel gioco di pause e parole, di silenzi e di racconti, di stacchi e riprese, di misteri esplorativi e accompagnamenti illustrativi, sotto la guida di un maestro, anzi di più maestri, in sala, in cantina, in cucina, sono gli stessi suggerimenti, gli stessi insegnamenti che Eric dava a Christine, cioè il Fantasma dell’Opera, ambientazione teatrale per eccellenza, dava alla sua pupilla e protetta, per guidarla ed indirizzarla nell’esplorazione delle proprie capacità. E suggestionato, interessante particolare, pure dai maestosi lampadari, che tanta parte hanno nella storia, ho vissuto i quattro atti, qui al Quadri, come se fossi proprio a Londra, nella trasposizione musicale dall’opera fatta da Webber, o anche a Parigi, guidato e ammaliato da questi nuovi mentori nel percorso gustativo di questa bella serata.A partire dagli amuse-bouche iniziali che, pur non esplicitamente inseriti nel contesto della rappresentazione, in realtà, possono essere visti come un prologo, una dichiarazione di intenti, un antefatto, che prepari al successivo iter. Come fossero l’asta che anticipa l’ouverture. Si tratta di piccoli manufatti con zucca, sedano rapa, liquirizia, in una combinazione d’apertura costruita sull’alleanza tra dolce, salato e frittura.Il primo atto, gli antipasti, è stato presentato in abbinamento ad un Pinot Bianco Alto Adige DOC, Sanct Valentin 2017, di St. Michael Eppan. Anche il vino, fresco, sapido, floreale, persistente avvicina il pensiero a leggiadrie e leggerezze, a virtuosismi, come quelli vocali di Christine, in “Think of me”, che tanto fanno innamorare il pubblico e il fantasma stesso. Sono i medesimi virtuosismi e le medesime abilità con cui sono costruite sia la “Galletta di battuta di manzo al tartufo bianco” che la “Zuppetta di cime di rapa con gelato di cipolla affumicata e guscio croccante di parmigiano”.La prima si presenta in due quadri, mantenendo la metafora: da una parte, con maionese al tartufo bianco, il boccone di tartare di fassona, intenso, pastoso, pieno, avvolto in chips a donare croccantezza a contrasto, e dall’altra, a completamento, un’insalatina fresca, composta su uno stecchino, per ripulire il palato.La seconda, più strutturata e composita, vede la quenelle di sorbetto alla cipolla rossa affiancata al cuscinetto ripieno di parmigiano reggiano, con salsa al tuorlo, sulla zuppetta con le cime di rapa. Il verde scuro, intenso, della zuppetta è lo sfondo cromatico per far risaltare il magenta vivace della cipolla e il chiaro ocra del guscio, screziato dal giallo aranciato del tuorlo. E la fragranza, sempre del guscio, ben contrasta con la cremosità della zuppetta, gradevolmente densa, e del gelato, non meno che le tattilità generate dai giochi di temperature. Anche i sapori, tra tendenza dolce e amarognola, sapidità e fumée contribuiscono a costruire il quadro di aspettative su cui, a questo punto, valuteremo il proseguimento.I successivi “Gamberi rossi con radicchio alla rosa, salsa di pistacchi e sorbetto d’arancia” incantano con la dominante freschezza della portata, data dal sorbetto all’arancia, sia come acidità che come temperatura, che fa il paio con la tendenza dolce del crostaceo, leggermente stufato, e le note amare del radicchio, in un bouquet di profumi tra agrumato e floreale. Anche le consistenze, poi, si schierano su due fronti opposti, la croccantezza delle chips di riso e la pastosità cremosa della salsa di pistacchi e del gambero. Quest’amalgama è servito in una ciotola decorata con le pennellate porpora di salsa al radicchio, disposte a raggiera, al centro delle quali la crema di colore giallo, saturo, ospita la quenelle arancio e i gamberi, rosa pallido. Tutto è, poi, sormontato da una nuvola di chips biancastre e giallo pallido.Ma il capolavoro, cromatico e non solo, di tutto l’atto e, forse, di tutta la rappresentazione è il veniente “Cappuccino di laguna”, fanta-visionario, psichedelico, sorprendente. Come l’omonimo brano del musical, “The Phantom of the Opera”, ha un andamento ipnotizzante, con il suo ritmo pulsante ribattuto, con gli ottavi di note in successioni cromatiche discendenti o ascendenti, con la sua melodia semplice, ma ammaliante nella sua ripetitività incantatoria, con le modulazioni di tonalità che si succedono adattandosi ora alla voce sopranile di Christine ora a quella tenorile del Fantasma, con i sovracuti sempre più alti della prima, incalzati dal secondo, in un finale voluttuoso e quasi orgasmico, trascinandola con sé nei sotterranei del teatro, nelle sue dimore nascoste, questo capolavoro gastronomico di colori, di gusti e di provocazioni tattili ci cattura, seduce, strega e magnetizza, conducendoci nei territori inesplorati in cui gli chef desiderano che li seguiamo. Si tratta di una crema di patate in cui sono immersi, sul fondo della ciotola, seppie e molluschi tipici, garusoli, soprattutto, e vongole, e la cui superficie è deliziosamente impreziosita da gocce, tracce, ricami, trame di colore, verde smeraldo, nero, sfumature blu elettrico, rosso porpora, scarlatto, giallo senape, ocra, in un arcobaleno incantevole e allucinatorio, generate dal nero di seppia, dalla barbabietola, dall’erba cipollina, dall’olio. E il consiglio stesso di non mescolare ma di mangiare affondando il cucchiaio per raccogliere la stratificazione è l’immagine stessa del penetrare nelle profondità recondite e, questa volta, magnificamente saporite del Fantasma. Tutto per poter portare alla bocca bocconi compositi, in cui i gusti possano esplodere al palato, regalando sapidità, pastosità, cremosità, terrosità, aromaticità, tendenze dolciastre e croccantezze in un’apocalisse, una rivelazione orgiastica del tutto paragonabile all’andamento prima insistente e poi disinibitamente liberatorio del finale del duetto canoro. Un capolavoro in chiusura di questo atto, dopo il quale momenti di riflessione e di abbandono sono necessari prima di affrontare il secondo.Sono le note suadenti, la nenia quasi infantile di “Music of the night”, in cui il Fantasma si prefigge di spiegare il proprio impeto creativo a Christine, ad introdurci ai sapori confortevoli e confortanti, ancestrali, atavicamente antichi dei “Ravioli di burrata con vongole, seppie, gamberetti e filetti di pomodoro” e del “Minestrone di ortaggi e spezie”.I primi, d’un bel giallo intenso, sono serviti in una piccola terrina, adagiati sul fondo, in un guazzetto dominato dal bianco delle seppie, dal beige screziato delle vongole e dal pallido rosa dei gamberetti, punteggiati dall’origano e ornati al centro dal rosso acceso e fiammante del filetto di pomodoro. La burrata nella farcitura avvolge il palato, e la sua grassezza è sfidata dagli accenti freschi e dolciastri del pomodoro, dalle consistenze succulente del brodo e molli dei molluschi. I sapori famigliari e piacevoli riportano a manicaretti di nonne, mamme, zie, profumi di origano a richiamare cespugli messi ad essiccare in aie soleggiate, sotto portici ventosi, durante i lunghi pomeriggi trascorsi ad inventarsi giochi nuovi con cui far passare l’estate.E ugualmente evocativo è il minestrone, in cui ortaggi di stagione, immersi nel brodo giallo-ocra scuro, si presentano al palato nella succulenza speziata, assieme al nero del riso Venere, e alle proteine dei ceci con salsa verde e al prezzemolo croccante. Intimo, curativo, quasi una terapeutica panacea che faceva passare tutti i malanni nelle intenzioni dei nostri avi. E gli impressionanti profumi di pesca oltremodo matura, incantevoli e parimenti suggestivi, del freschissimo Clos des Treilles Blanc 2016 di Nicolas Réau (Chenin in purezza) hanno accompagnato questa formidabile regressione nelle nostre fanciullezze.Ma siamo richiamati ad una maggiore età dalla personalità decisamente più matura ed evoluta dei “Tagliolini con sugo di lepre, funghi, tartufo bianco e salsa di lievito”, il cui nido di pasta fresca è posto sulla base di salsa, condito con ragù di lepre e ricoperto da scaglie di tartufo. I sapori decisi della selvaggina sono fronteggiati, nei seni nasali, dagli aromi del sottobosco, leggermente terrosi, dei funghi e del tartufo in particolare, che si sviluppano in un secondo tempo, per poi lasciare il finale ai lieviti. È un Bourgogne Pinot Noir 2016 di Domaine Coillot, sottile, erbaceo, con sentori di bosco e descrittori di frutta rossa, il vino chiamato a dover fronteggiare la lepre. Amabile questa portata di pasta, probabilmente la vera “Prima donna” di questo atto, la “Carlotta” adorata e corteggiata dagli impresari dell’Opera e che, invece, il Fantasma vuol far sostituire da Christine. Ma come tutte le prime donne, riesce a farsi ricordare ed applaudire a lungo per le proprie abilità.È sul finale che siamo chiamati a riflettere prima della conclusione della teoria di primi. Il risotto che viene servito, “Risotto di Go, capperi e sorbetto di carciofi”, oltre all’eponimo pesce di laguna contiene anche crostacei, sempre di laguna (granseole), ed è servito con un sorbetto di carciofo, polvere di oliva nera e con olio profumato al cappero. Alla vista, le tonalità marron del carciofo e più scure delle olive sono ravvivate da tocchi di vivo verde di erbette e di rosso fiammante di pomodori. Al palato non ci sono picchi prevalenti né di consistenze, né di aromi, presentandosi, anzi, il tutto abbastanza uniforme. E nemmeno il carciofo riesce a far risultare difficile, come comunemente dovrebbe, l’abbinamento con i vini. Insomma, il finale, in questo caso, non è il classico “coup de theatre” dato da cadute di lampadari, tragedie epocali, rivelazioni sconvolgenti, agnizioni inaspettate. Anzi è un finale piacevolmente tranquillo che ci porta ad un nuovo intervallo, questa volta più netto, prima della ripresa. “All I ask of you”, come dice Raoul a Christine, tutto quel che chiede a noi è di metterci in serena attesa di quanto seguirà. Con la medesima fiducia che un amato o un’amata deve riporre, come le è richiesto di fare dal proprio ruolo, nel partner.Il cuore della rappresentazione, l’atto più esplicito arriva con la maggior struttura delle preparazioni presentate nel terzo atto. “Masquerade” è la corale colonna sonora del ballo che, alla riapertura del teatro dell’Opera dopo la rovinosa recita conclusasi con il crollo del lampadario causato dal fantasma, vede costui protagonista nel proporre e nell’imporre alla direzione la propria composizione, pretendendone la messa in scena. È musica costruita su dissonanze, su accordi stridenti, ma ammaliante, adulta, consapevole e per questo impegnativa, nella costruzione e nella fruizione. E come tale musica è maggiore il livello di apprezzamento per le successive portate. Già il vino in abbinamento, un Amarone della Valpolicella 2016, Tenuta Sant’Antonio, della Famiglia Castagnedi impone una beva che richiede preparazione. Speziato, corposo, gentilmente tannico, entra in scena soprattutto per accompagnarsi con la parte “carnale”, per così dire, dandole in tal modo un maggior rilievo ed un ruolo di primaria importanza all’interno di tutti i secondi piatti, e costringendo, per questo, le altre portate ad avere accorgimenti specifici per reggerne il confronto.Sicuramente il “Germano reale con more e tartufo bianco” è il partner ideale del matrimonio d’amore con l’Amarone e per la struttura e per la succulenza e per le persistenze aromatiche e per l’acidità e per i profumi. La selvaggina, appunto cacciata e non allevata, è accompagnata da una purea di castagne con anguilla affumicata e ricoperta da scaglie di tartufo, mentre la succulenza abbondante è fornita dalla salsa di riduzione di more. Quest’ultima è egregiamente governata dal tannino dell’Amarone, così come gli aromi del tartufo sono bene assecondati dai suoi descrittori di sottobosco e speziati. Al palato l’acidulo delle more è il costante sottofondo che a volte lascia il posto ai profumi caratteristici e “terreni” del tartufo, a volte cede il passo alla dolcezza della purea delle castagne, con i suoi sentori affumicati. La tonalità dominante è un rosso rubino cupo, quasi granata, che sfuma nel beige, nel marroncino delle castagne, rosso della passione che suggella la perfetta riuscita del germano e del pairing con il vino scelto.L’”Astice tostato con insalata croccante alla canapa, melograno e rosa” deve invece puntare sulla tostatura, sulla tattilità scrocchiante e sul melograno per avere qualcosa da dire. L’ideale consumo lo vede come prima scena di questo atto, per non essere sminuito dal confronto con gli altri comprimari, se consumato dopo di loro. E anche per l’abbinamento sarebbe consigliabile aver tenuto qualche sorso del Clos des Treilles precedentemente servito. L’astice, il cui colore pallido sfuma anche nel nero del carbone, è affiancato dal brillante verde erba di qualche foglia di lattuga e punteggiato dal porpora del melograno e dalla cremosità della salsa biancastra. Un registro più intimista, introspettivo, dai sapori complessivamente più delicati, con cenni di freschezza e di croccantezza, come antagonisti alla “carnosità” più morbida del pesce.Sulla linea della riflessione e del desiderio è anche la “Sogliola con salsa intensa al nero di seppia”, servita in una casseruola d’acciaio, ricoperta da verdure laccate alla barbabietola e profumate allo zenzero e dall’intensa salsa al nero di seppia. È quest’ultima, infatti, a dare il vigore che potrebbe aver qualcosa da dire nei confronti dell’Amarone, ma, come nel caso precedente, una valida alternativa da sperimentare sarebbe aver ancora in serbo qualche sorso di Chenin o di Pinot Bianco. L’accostamento tra il nero della salsa e le sfumature aranciate della laccatura alle verdure è suggestivo, riflesso dalle pareti della stoviglia, e il consumo direttamente dal tegame di portata è ulteriormente allusivo a proibite tentazioni d’infanzia quando, appunto, tuffarsi direttamente nei tegami che accompagnavano la cottura dei manicaretti preferiti era giuoco per noi imprescindibile come parimenti inevitabile era il rimprovero dei più adulti seduti al nostro stesso desco. Nostalgia di famiglia, quindi, desiderando che fossero ancora tutti presenti i protagonisti di allora. Melanconia della Christine di “Wishing You Were Somehow Here Again”, rivolta al padre, cantata sulla sua tomba, e desiderosa della sua presenza anche solo in cerca id un consiglio che egli, evidentemente, non le può più regalare.La “Millefoglie di verdure con spremuta di sedano rapa, barbabietola acida all’aneto e caviale” è la parte conclusiva. Il vivacissimo, quasi fluorescente, rosso tra il porpora e il fucsia di questa costruzione cubica ottenuta dalla stratificazione vegetale, laccata al succo di barbabietola, stagliantesi nel brodetto di sedano rapa, circondata da schiuma di barbabietola, dal verde dei ciuffetti d’aneto e infine sormontata da una nera cucchiaiata di caviale italiano offre, con la sua freschezza acidula, salmastra e terrosa un degno supporto al germano, innanzitutto, ma non sfigura nemmeno con le altre due portate o consumata in solitudine al termine dell’atto.Infine, è il momento dei dolci, del quarto atto. È il punto di non ritorno del Fantasma, “The point of no return”, in cui tutto è compiuto e volge inesorabilmente al termine. L’entrata è offerta dallo scoppiettante “Sorbetto frizzante al pompelmo”. La sua freschezza travolgente e amarognola, inebriantemente agrumata, fa giustamente dimenticare gli strutturati passaggi degli atti precedenti, per accompagnarci verso un finale più leggero, agile, scattante. La spuma frizzante di limone, il mix di agrumi in superficie, arancia caramellata, marmellata di limone e polpa di lime grattugiata, il pompelmo gelato sono lo scrigno all’interno del quale sono custoditi, caramellati, oliva nera e peperoncino. Leggiadria e spensieratezza. Non si torna più indietro, appunto. E poi la “Nuvola di zabaione”, servita in una pietra scavata, con biscotti d’accompagnamento, soffice e ulteriormente leggera, sormontata da una meringa spumosa all’acqua di ceci senza impatti al gusto ma solo per offrire volumetrie tattili e visive. Il tutto chiuso da una spolverata di cacao.E poi il “Ducale al tartufo bianco”, costruzione a più strati di cioccolato, liquirizia, mandorla, caramello e tartufo bianco, delizioso compagno ideale, assieme allo zabaione, del Nero Musqué Diciotto prodotto da Ca’ Lustra, biologico, alcolico, con sentori di confettura di frutta rossa, suggestivamente allusivo e rievocativo, un'affascinante meditazione di fine pasto.L’atto si conclude con la “Pipa pistacchio e frutti rossi”, in cui crema di pistacchio, mandorla e spuma di ciliegia sono servite in una vera e propria pipa di vetro, la rosea stratificazione in cima e quella giallo paglierino sotto, da consumare suggendo come fosse una un calumet della pace a sigillo dell’intero percorso. Amabilmente fresca e conclusiva, con i sapori pungenti dei frutti rossi accompagnati da quelli più cremosi e “rassicuranti” del pistacchio e da quelli più allusivi a soleggiate distese della mandorla.È questo quindi il finale. E come nel finale il fantasma scompare lasciando la maschera come unica traccia a ricordo, qui il congedo è fornito dalla piccola pasticceria: un rossissimo e intenso sorbetto ghiacciato al melograno e un avvolgente gianduiotto. Per mantenere vivo il ricordo della mirabile esperienza regalataci da Sergio, Silvio, Giacomo, dalla cucina e dalla gentilezza della sala e dell’accoglienza. Bravi! Applausi! Sipario!"